Partendo dal presupposto che non tutti sarebbero d’accordo con la frase del titolo, nel senso che forse le “vie” che si seguono non andrebbero troppo personalizzate,
adesso, per come sono ora nel 2024 mi appello sempre di più alla facoltà di poter pensare che ogni disciplina nata con lo scopo di portare l’essere umano ad evolvere, sia al servizio dello stesso e non viceversa, un po’ come diceva quello là: il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato.
Il comandamento per me, ad oggi, è diventato questo: le conoscenze, i rituali, le tecniche sono uno strumento, il viceversa mi allontana da me e dal motivo che mi ha spinto ad utilizzarli, e cioè l’idea di poter sempre di più conoscermi.
Ho incontrato lo Yoga nel 2001 dopo vari approcci a varie discipline sportive, che non mi hanno appassionato più di tanto.
Chiedo venia se qualcuno si offenderà per il mio parlare di Yoga e Sport nella medesima frase, ma per me all’inizio di questo si trattava: andare una o due volte a settimana in una “palestra” a fare col corpo qualcosa che stava a metà tra una ginnastica e un’arte marziale.
Io avevo provato entrambe le modalità, tra le varie, ma qui mi pareva ci fosse qualcosa di diverso, qualcosa che mi attraeva di più.
Sapevo già dello Yoga in realtà.
Ho sempre avuto fin da bambino, uno spiccato interesse per tutto ciò che riguardava spiritualità, misticismo, religioni, insomma, ero attratto dalle varie modalità di ricerca di Dio, e lo Yoga, quando lo conobbi per la prima volta, era indicato come una pratica ascetica, nata nel marasma sciamanico primordiale in certe aree del sub-continente indiano, con l’idea di portare l’uomo ad una riunificazione col divino dal quale è stato creato e, per motivi che non mi erano e che non mi sono ancora del tutto chiari, dal quale si era separato.
Il primo Maestro che conobbi, che poi mi ha accompagnato per quasi 15 anni, pur impostando le lezioni in una modalità piuttosto laica, per nulla coreografica, senza “Om” né meditazione, buttava però qua e là, durante la lezione, qualche pillola tratta da testi inerenti la filosofia dello Yoga, ad esempio citando Patanjali, la Gita, e, cosa per me ancora più interessante, frasi e pensieri del maestro armeno Georges Gurdjieff che con lo Yoga tibetano aveva avuto un rapporto piuttosto stretto e che, pur non sapendolo ancora, sarebbe stato per me grande punto di riferimento in futuro.
Praticavamo tendenzialmente lo stile Hatha, con cenni di Vinyasa, e a volte anche un pochino di Ashtanga (il mio maestro era stato allievo di BKS Iyengar a Pune, e aveva poi avuto altre esperienze sempre in India).
Ad un certo punto, dopo circa 10 anni accadde che non mi bastava più la pratica settimanale di gruppo e quasi quotidiana a casa , avevo voglia di qualcosa di più specifico, di più profondo e parlandone con il mio Maestro questi mi consigliò di provare a frequentare un corso per diventare insegnante, indicandomi alcuni Ashram in India.
Io in India c’ero già stato, l’inglese lo masticavo abbastanza e quindi, perché no?
Sarebbe stato davvero figo andarci e frequentare, ad esempio, un intensivo in cui immergermi totalmente nella pratica.
Il mio intento all’inizio non era quello di insegnare, ma di provare, anche se per poco tempo, l’esperienza degli antichi yogi, magari a stretto contatto con grandi maestri , magari in riva al Gange! Che storia!
Per varie vicissitudini anche abbastanza travagliate non potei partire per l’India e così, dopo un iniziale pesante scoraggiamento (che mi diede però la riprova che quella formazione, nonostante alcune titubanze, io la volevo davvero fare), ripiegai per qualcosa di più vicino, e scoprii che intensivi simili erano possibili anche in Italia.
Optai così per una scuola toscana che proponeva corsi sulle colline fiorentine in un Ashram gestito da Hare Krishna, personaggi davvero scatenati che non la smettevano di cantare preghiere, ballare e mangiare dolci a base di ghee. Quanto li ho amati!
Lo stile proposto dalla scuola che avevo scelto era completamente diverso rispetto a quello del mio maestro: fluido, più dinamico, incentrato sui passaggi tra un asana e l’altro. Questo mi piaceva molto anche perché nel periodo precedente avevo avuto la possibilità di imparare la Craniosacrale Biodinamica e quindi di scoprire i movimenti delle nostre innumerevoli maree interne, il che mi aveva portato alla necessità di portare fuori quella calma e fluida dinamicità.
Beh quando tornai a casa ero molto diverso, ovviamente: la pratica intensa quotidiana unita ad un’alimentazione specifica, ad esercizi respiratori, meditazione, e perché no, uno studio profondo della filosofia e della storia dello Yoga ti cambiano.
Forse un po’ troppo, l’identificazione con il mio nuovo maestro era in agguato.
Alla fine poi iniziai ad insegnare, o meglio istruire, o, come piace dire a me, facilitare Yoga a delle classi tutte mie.
Uno dei miei sogni però, era di insegnare Yoga nella disabilità (venivo da esperienze passate in tal senso) quindi a contatto con persone che non avevano le mie stesse possibilità motorie, intellettive.
Il dover lavorare con uomini e donne magari immobilizzate in qualche arto, se non in tutto il corpo, mise in discussione tutto quello che avevo imparato a livello di allineamenti, soprattutto negli anni addietro durante i miei primi approcci allo Yoga: certi guru hanno la tendenza ad essere un po’ troppo geometrici e rigidi nel descrivere le forme del corpo, e questo può diventare frustrante se non hai certe possibilità fisiche, e questo non riguarda solamente la disabilità, ma chiunque abbia una qualsiasi tensione osteomuscolare, per esempio.
Oltretutto non esisteva materiale al quale fare riferimento, qualcuno proponeva già lo Yoga nella disabilità, ma, solo a livello di rilassamento.
Quindi feci la cosa che più, anche oggi, mi è congeniale: lasciai spazio totale alla mia fantasia ed iniziai a creare.
Inventai un percorso fatto di varianti di asana, respirazioni, esercizi di concentrazione totalmente nuovo e adatto davvero a chiunque.
In fin dei conti una delle cose più importanti che avevo imparato durante gli anni e i vari incontri con vari insegnanti era che un maestro è davvero bravo e sa fare il proprio mestiere se è così in contatto con il proprio corpo e con la pratica (e non con un libro di testo) da poter proporre più varianti di posizioni partendo dal sentire su di sé gli effetti delle stesse e modificandole senza che questi risultati si perdano.
Ad un certo punto, da bravo ricercatore e, perché no, bastian contrario quale ero, mi posi altre domande.
Era mai possibile che in occidente non ci fosse stata la possibilità di un lavoro corporeo con finalità spirituali?
Era mai possibile che ci si dovesse rivolgere per forza ad oriente perché qui da noi non c’era stato il necessario sviluppo di certe pratiche?
In fin dei conti le prove della presenza dello sciamanesimo a livello globale in tempi antichissimi erano lampanti, e questo comprende anche tecniche corporee, com’era possibile che qui non fosse rimasto nulla?
Mi sono così rimesso “in viaggio”.
Innanzitutto avevo notato che nell’Islam la forma di preghiera implicava una sequenza di movimenti corporei che mi pareva di avere già visto.
Inoltre una delle terre che ho sempre amato e che per me è stata anche una seconda casa, la Val Camonica, aveva le risposte nelle sue più famose opere d’arte neolitica: i pitoti.
Ero andato a vederli mille e mille volte, ma solo entrato in questa fase critica avevo aperto gli occhi e iniziato a notare che molte delle forme corporee rappresentate nelle incisioni rupestri erano identiche a certe posizioni dello Yoga.
E non solo, le stesse connessioni erano presenti in certe pitture etrusche o greco-romane.
Iniziai così a sperimentare su di me i risultati di quelle ricerche e, grazie anche all’apporto del lavoro della dottoressa Felicitas Gooldman e dei suoi studi sulle Posture dell’estasi di tradizione sciamanica ho scoperto anche noi avevamo avuto maestri spirituali che per forza di cose avevano intuito che per raggiungere una qualche connessione con stati di coscienza più elevati, atti alla connessione col divino, bisognasse passare dal corpo.
E così ho iniziato ad inserire nelle mie sessioni quelle che per l’appunto vengono definite in ambito “occidentale” le pose dell’estasi.
Sono venuti poi altri incontri, altri maestri, che mi hanno dato una visione ancor più personale dell’approccio corporeo alla vita e alle sue manifestazioni: ad esempio l’Anatomia Esperienziale prima e la Corpocoscienza poi.
E qui ho dovuto fare i conti con il limite più grande che subentra quando si segue una scuola, uno stile, un percorso, e cioè l’identificazione con lo stesso, o con la figura che lo propone.
La Corpocoscienza inoltre mi ha permesso di incarnarmi ancora di più e di diventare io il metro di misura, il punto di riferimento di ogni pratica.
Non esisteva più un allineamento, un modello, io, il mio corpo diventavamo il mozzo della ruota intorno al quale si sarebbe mosso il mio lavoro.
E ho capito che questo non deve essere un fine.
E ho “sentito” quello che intendeva Patanjali con il termine sanscrito “sukam” in uno dei suoi aforismi quando si riferiva al lavoro degli asana.
Il piacere, l’estasi, sono stati di coscienza ma che posso sentire nel corpo in primis.
Come quando senza pensare, d’istinto, ci mettiamo in una posizione per il puro piacere di farlo, senza scopo, senza nessun fine.
Come quando ci stiracchiamo al momento del risveglio. Ecco, quello è il migliore degli asana: innato, suggerito dal corpo, finemente utile, estatico.
Come quando San Francesco si sdraiava su un prato con le braccia incrociate sotto la testa a guardare il cielo.
Quella è l’estasi.
La mia modalità di portare lo Yoga è quindi cambiata ancora di più.
Soprattutto mi sono sganciato dalla geometria delle pose, dal pretendere che un corpo per niente “perfetto” secondo certi canoni debba per forza tentare di allinearsi per inseguire una simmetria che nella realtà, e in tutta la natura, non esiste!
Il lavoro che faccio adesso è quello di partire dal sentire il corpo e da lì muoverlo, senza perdere questa coscienza corporea ,nelle posizioni, modificandole all’occorrenza se sentiamo disagio e, più in profondità, nell’emozione, a ricercare il piacere, sganciandomi dalla fatica esagerata, che sì, in parte, ci deve essere comunque, ma che non deve diventare la normalità della pratica, portandoci a rincorrere quel detto secondo il quale “se bello vuoi apparire, un po’ devi soffrire” .
No. Questa non è più la mia modalità, per quanto far fatica un po’ mi piaccia.
Lo “Yoga secondo me” è diventato il risultato di tutto il mio percorso, nato dalla ricerca spirituale, dal lavoro con diversi stili di Yoga, dal portarli nella disabilità, dall’incontrare diverse tecniche corporee sempre più esperienziali, sempre più sentite, che mi hanno insegnato e fatto incarnare la nostra condizione di splendida asimmetria, di fluidità, di imperfezione dove io non divento un asana, ma l’asana diventa me.
L’ultimo capitolo di questo viaggio, come ho accennato prima, racconta dell’incontro con l’insegnamento di Mr. Gurdjieff che purtroppo, nelle scuole esistenti che ho incontrato, a mio avviso, non tiene conto dell’enorme bagaglio di lavori corporei che l’amato maestro ha portato nel mondo. Per fortuna in molti testi, specialmente di allievi che lo hanno conosciuto di persona raccontano certi esercizi, certe meditazioni, certe danze. Ed ora la mia ricerca è orientata lì.
Sono, dunque penso.
Pierpaolo Lombardi – Facilitatore di Yoga e Pose Estatiche, Meditazione e Yoga nella disabilitò – Terapeuta in Reflessologia Plantare e Corpocoscienza